San Giuseppe a Trabia tra storia e tradizione

Il giorno 19 marzo è il giorno che ci ricorda la festa di San Giuseppe che in vita esercitava il mestiere di falegname, coadiuvato da Gesù di cui era il padre putativo, cioè era ritenuto tale senza esserlo veramente. San Giuseppe nel mondo cristiano è considerato il protettore del lavoro artigianale. Il 1° maggio festa dei lavoratori ci si ricorda di San Giuseppe lavoratore. Il vangelo ce lo descrive come un padre affettuoso, premuroso, laborioso ed un uomo pio e giusto. A Trabia la festa di San Giuseppe che ricorre il 19 marzo è molto sentita e viene organizzata dalla confraternita di San Giuseppe, assieme al sacerdote. Questa associazione religiosa si distingue dalle altre confraternite per l’abitino di colore giallo che sul davanti ha un basso rilievo metallico di colore argento raffigurante San Giuseppe con in braccio il bambino Gesù. La festività del Santo lavoratore viene programmata con largo anticipo rispetto al 19 marzo. Quando nel periodo autunnale e invernale i contadini Trabiesi rimondano gli alberi di nespolo e di ulivo, una parte della ramaglia rimondata viene “ammazzunata” e lasciata per terra per essere utilizzata per le famose “vampe” di San Giuseppe. Circa un mese prima della ricorrenza religiosa i giovani della confraternita di San Giuseppe girano per le vie del paese per la questua, cioè raccogliere un po’ di denaro per le spese della solennità religiosa: addobbo floreale, spese per le candele, banda musicale, processione, mortaretti e altre spese necessarie per la riuscita della festività. I soldi della questua e il contributo volontario dei confrati creano un fondo cassa necessario per le spese d’esercizio della festa. Tre giorni prima del 19 marzo la chiesa viene parata a festa. “U Zu Sarì l’apparaturi” arricchiva le colonne, gli archi e le finestre della chiesa con ornamenti composti di foglie, fiori, strisce di stoffa o carta colorata e dorata per darle un aspetto, festoso, allegro e accogliente affinché la comunità ecclesiale potesse esprimere gioia, amore e accoglienza per onorare nel miglior modo possibile la figura di San Giuseppe padre, lavoratore e santo. La vigilia della festa di San Giuseppe nei vari rioni del paese si ammucchiano fasci di legna portati dai contadini dalle campagne e i ragazzini fin dalla mattina giravano per le vie del proprio quartiere per chiedere e poter avere vecchi mobili, suppellettili di legno che avevano in casa e che non erano più utilizzabili. Così si potevano vedere negli spiazzi dei vari rioni: tavoli, vecchie sedie, porte sgangherate, ceste sfondate, casse di legno inservibili, pezzi di travi fradici, scarti di legno provenienti da laboratori di falegnameria accatastati e pronti per essere bruciati. La catasta di legna e ramaglia era controllata dai “Rionisti” per evitare furti o accensione anticipata. Alla fine del triduo dei vespri in onore di San Giuseppe, la campana posta sulla sommità del campanile emetteva uno scampanio lungo, prolungato e festoso era il segnale che si aspettava per appiccare il fuoco, fuoco che nel mondo cristiano è simbolo di purificazione. Cristo è colui che purifica, rigenera, illumina e riscalda il mondo e i nostri cuori. All’improvviso decine di vampe cominciavano a rischiarare il cielo dando luogo ad uno spettacolo fantastico fatto di lingue di fuoco che guizzavano in aria in molteplici forme, altezza e ampiezza. La gente che si trovava più vicina al fuco arretrava un poco per il troppo calore, la legna delle vampe crepitava sprizzando scintille che innalzandosi verso il cielo lo riscaldavano e lo illuminavano a giorno come fossero stelle. La gente assisteva gioiosa con gli occhi lucidi per la contentezza e ancor più contenti  se la propria “vampa”, vincesse in altezza quella dei rioni vicini e concorrenti. Tra i rioni c’era un tacito scontro fra chi facesse la vampa più alta, più ampia e più duratura.

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La gente era quasi affascinata dal fuoco cioè da quell’elemento primordiale e misterioso sempre mutevole e sempre lo stesso. Fuoco che secondo il filosofo greco Eraclito era all’origine della terra, dell’aria e dell’acqua cioè principio e fine della vita. Da quando era stato scoperto e riprodotto per la prima volta dagli uomini era stato utilizzato come mezzo non solo di vita ma di morte: per riscaldarsi, per cucinare vivande, per illuminare, per lavorare metalli ma anche per distruggere: vedi l’incendio e la distruzione di Troia, la famosa biblioteca alessandrina, bruciare essere umani per eresia come il filosofo domenicano Giordano Bruno e Girolamo Savonarola. Di tanto in tanto il silenzio e il crepitio della legna bruciata veniva interrotto da qualcuno che gridava: viva San Giuseppe, altri ripetevano viva San Giuseppe e il grido inneggiante il santo si propagava di rione in rione come fosse un onda marina. Altri rimanevano silenziosi e concentrati sullo spettacolo creato dal fuoco, fuoco che veniva alimentato di tanto in tanto da ramaglia che era in deposito o da altre cose che dovevano essere bruciate: Tavoli vecchi, panchine di legno, sedie, banchi ed altro materiale legnoso. Quando le fiamme si erano estinte ed erano ridotte ad enormi bracieri uomini e donne del quartiere cominciavano a portare secchi di acqua per estinguere completamente il fuoco ed ognuno con le palette portava a casa la sua parte di brace contento e soddisfatto. La sera si concludeva con il consumo dello sfincione che ogni famiglia preparava in casa. Lo sfincione era il cibo che si consumava tradizionalmente dopo che si spegnimento delle “vampe”. Alcune famiglie come quella dello scrivente lo andavano a comprare a Termini Imerese dove in via San Giuseppe c’era un forno che preparava uno sfincione particolarmente gustoso e anche perchè allora i forni locali non erano sufficientemente preparati per tale golosità. Oggi purtroppo la tradizione delle “vampe” ,per diversi motivi a Trabia si è persa nel tempo e ne restano solo i ricordi di chi è più avanti negli anni e la può raccontare, con un po’ di nostalgia, ai propri figli, ai propri nipoti e alle nuove generazioni. Ma la festa di San Giuseppe non finisce con lo spegnersi delle “vampe” l’indomani giorno 19 marzo iniziava la festività religiosa vera e propria. L’inizio avveniva attorno alle sette del mattino con “l’arburata” cioè lo sparo di sette mortaretti di forte intensità con scadenze regolari. Intorno alle ore dieci la banda musicale girava suonando preceduta da alcuni confrati per le vie del paese per una seconda questua. Nel mentre altri confrati in chiesa preparavano l’addobbo della “vara” su cui vi si collocava la statua di San Giuseppe, all’interno trovavano la sistemazione le batterie che dovevano illuminare le lampadine situate attorno alla statua di San Giuseppe, venivano messi in ordine i grossi ceri, la si abbelliva di tutto punto con fiori e altri elementi decorativi, si sistemavano le lunghe e grosse stanghe di legno che servivano per il trasporto a spalla del simulacro. Attorno alla “Vara” c’era un nastro su cui si disponevano gli ex voto. Quando la “vara” era tutta ordinata e abbellita in ogni suo punto la si collocava nel transetto di destra della chiesa, quando il tutto era pronto e sistemato secondo le disposizioni, la campanella posta vicino la sagrestia suonando avvisava i presenti di alzarsi  per seguire con lo sguardo attento e partecipativo il sacerdote, con indosso i paramenti sacri, percorrere lo spazio che lo separava dall’altare per celebrare la santa e solenne messa cantata in onore di San Giuseppe. Intanto agli anni 50 e 60 la chiesa era sempre piena di fedeli, specialmente nelle ricorrenze religiose più importanti. In quel tempo le mamme per non seguire all’impiedi le lunghe funzioni religiose mandavano i loro figli all’apertura della chiesa per potere occupare un numero di sedie ( allora non c’erano gli attuali banchi) per soddisfare le esigenze familiari, sedie che dovevano essere occupate prima dell’inizio delle funzioni religiose diversamente si potevano considerare libere e potevano essere occupate da altri. Per l’occasione, cioè la festa, tutti indossavano abiti eleganti in particolar modo le donne che avevano sui vestiti elementi decorativi che davano un non so che di grazia, finezza, buon gusto e signorilità; mentre attorno al collo e al polso avevano gioielli che le rendevano più eleganti e raffinate. Le prime file della navata di sinistra erano occupate dalle suore del collegio “Achille Bova” e dei presidenti delle varie confraternite, mentre le prime file della navata di destra erano occupati dagli amministratori locali: sindaco, giunta, consiglieri comunali e altre autorità civili e militari. Il resto delle sedie erano occupati dai fedeli, mentre altri devoti seguivano le funzioni religiose in piedi e in religioso silenzio. Alle ore dodici in punto iniziava la solenne messa seguita con molta attenzione da tutti i presenti. Finita l’omelia cioè il sermone tenuto durante la celebrazione eucaristica a commento delle sacre scritture, il sacrestano che allora era “Vicè u saristanu” passava tra le sedie della chiesa a riscuotere il contributo per occupazione della sedia che allora era di 5 lire per ogni sedia, se si trattava di messa normale, di 10 lire se si trattava di messa cantata o messa solenne, perché diverso era il tempo di occupazione delle sedie. Mentre in chiesa si svolgevano questi momenti religiosi, alcuni confrati della confraternita di San Giuseppe assistevano, sul corso La Masa, sgombro di macchine, alla posa dei mortaretti ( cilindretti di cotone carichi di polvere da sparo) che si fanno esplodere in senso di gioia. Si preparava cioè la famosa “masculiata”. Questa lunga fila di mortaretti iniziava dalla “Favara” e finiva di fronte alla chiesa madre ed era sorvegliata e custodita da alcuni confrati e dal fuochista che attendeva il segnale per poter appiccare il fuoco ai mortaretti. Segnale che arrivava alla fine della santa messa allorquando la campana della chiesa suonava a stormo. Era il segnale atteso dal fuochista che subito dava il fuoco alla miccia cioè il filo combustibile per trasmettere l’accensione agli ordigni esplosivi. Iniziava così la “masculiata” interrotta ad intervalli regolari da botti ancora più forti. Un fumo intenso e bianco ed un odore di polvere da sparo si percepiva nell’aria e andava dietro il botto dei petardi e la gente gaia e festosa camminava dietro quella forma di nuvola bianca e grigia formatasi dallo scoppio dei mortaretti. Quando la “masculiata” arrivava davanti la chiesa madre il rumore prodotto dagli ordigni esplosivi  era più intenso, più forte e più duraturo. Seguivano secondi di silenzio, dopo di che si sentiva un botto secco e molto forte, era il segnale che la “masculiata” era finita. Subito dopo la banda musicale, seguita dalla folla ridiscendeva il corso suonando, si fermava a metà della sua lunghezza suonava delle marce molto orecchiabili e per finire una marcia di lode in onore di San Giuseppe, fra gli applausi dei presenti che gridavano : Viva San Giuseppe. Dopo di ciò il capo banda che era “u Zu Giò Cancilla” scioglieva il corpo musicale con le parole che erano diventate famose a Trabia: “Ora tutti a casa”. Ognuno faceva ritorno alle proprie abitazioni per consumare il pranzo festivo che di solito era a base di ragù ed era un cibo ricco, vario, ricercato e gustoso imbevuto da qualche bicchiere di vino locale. Pranzo che si concludeva con un dolce tipico fatto conoscere ai siciliani dagli arabi, durante la loro occupazione, che era chiamato “sfincia”. In tanto alle ore quattordici davanti il salone di Giuvanninu Mazza che si trovava alla base della scalinata che portava al bastione avveniva il lancio dei palloni aerostatici che lo stesso creava. Si assembravano e si incollavano pezzi di carta velina colorata che venivano agganciati ad un cerchio di ferro, cui era attaccata una reticella contenente un batuffolo di bambagia imbevuto di petrolio. Bruciato il batuffolo il pallone aerostatico cominciava lentamente a gonfiarsi e a dilatarsi. Quando era tutto allargato e riempito di un gas più leggero dell’aria si sollevava lentamente da terra e le mani che lo tenevano fermo lo allentavano. Il pallone si sollevava in aria andando sempre più in alto e spinto dal vento vagava di qua e di la nel cielo, mentre i presenti alzando lo sguardo verso l’alto lo vedevano diventare sempre più piccolo fino a quando spariva dalla loro vista. I palloni aerostatici creati dal barbiere Giuvannino  erano variamente colorati e riportavano il disegno di santi e di nature morte. Ma per l’occasione il pallone più grande, nel suo esterno, riportava l’immagine di San Giuseppe con in braccio il bambino Gesù, tanto che quando il pallone si alzava verso il cielo tutti i presenti gridavano a gran voce: viva San Giuseppe e restavano con il naso all’insù fino a quando si perdeva nell’immensità della volta celeste e poi felici e contenti tornavano alle proprie abitazioni per prepararsi alla processione del protettore dei lavoratori artigianali, San Giuseppe. Il pomeriggio si svolgeva la solenne processione che si snodava nella prima parte sulla via Madrice. Il corteo era preceduto dal “tammurinaru” e seguito dalle varie confraternite, intesta al quale c’era la confraternita della Madonna delle Grazie, sul cui abitino di colore azzurro spiccava l’immagine della madonna con in braccio il bambino divino, mentre sul capo aveva una corona ricca di diademi, seguiva poi la confraternita dell’Immacolata sul cui abitino celeste era raffigurata l’immagine dell’immacolata, copia di quella che si trova sull’altare maggiore della chiesa madre, quindi quella della Passione e Morte, sul cui abitino rosso c’era l’immagine dell’addolorata con un manto nero sulle spalle e sulle ginocchia il figlio Gesù morto. Questa confraternita aveva un portatore di croce sulla cui parte orizzontale portava la scritta: “amor omnia vincit” (l’amore vince ogni cosa). Seguiva la confraternita del santissimo Sacramento, sulla cui casacca bianca era raffigurato un calice fra due angeli in ginocchio, quindi la confraternita di San Giuseppe. Ogni confraternita schierata in doppia fila era preceduta dal proprio stendardo alla base del quale era scritto con un filo dorato il nome che lo stendardo rappresentava mentre dai lati pendevano due cordoncini che finivano con un fiocchetto tenuto in mano da due confrati che costituivano l’inizio della fila di ogni confraternita. Al centro della quale, ogni confraternita aveva un portatore di asta, barra lunga, diritta, sottile e ben levigata alla cui sommità era legato un drappo triangolare dello stesso colore della confraternita che rappresentava, che in assenza di vento scendeva lungo la stessa asta, diversamente sventolava dando un senso di gioia festiva e di spettacolarità, poi c’erano due bastoni eri chiamati così perché avevano in mano una piccola asta in alto della quale c’era l’insegna della propria confraternita, il cui compito era di dirigere ognuno la propria confraternita, organizzarla farla procedere in modo ordinato, consentire il cambio ai portatore di aste e stendardi, accordarsi con gli altri bastoni eri con cenni o segnali per le fermate e le ripartenze del corteo dopo ogni fermata, dare il segnale per l’accensione delle candele e così via. Alla fine della fila di ogni confraternita c’era il proprio superiore con due suoi collaboratori chiamati spalla di destra e spalla di sinistra. Quando tutto era pronto, la vara addobbata a festa in ogni suo punto veniva trasportata a spalla, per mezzo delle aste. Sul pianerottolo della chiesa, dove assiepate sulla piazza c’erano le varie autorità religiose, civili e militari e folla festante. Si sente un breve scoppio di mortaretti, la campana della chiesa suonare e il segnale che sta per cominciare la processione. La banda musicale suona inni in onore di San Giuseppe, ogni bastoniere indica ai propri confrati di accendere le candele. Il superiore della confraternita di San Giuseppe grida addumannamuci razzia a San Giuseppi, e con la mano batte sulla parete della vara che è il segnale convenuto per l’inizio della processione, mentre tutti i presenti ripetono l’invocazione evviva  San Giuseppe. I portatori mettono sulle loro spalle le aste della vara dando inizio in questo modo alla solenne processione. Tra il suono della banda musicale e i evviva San Giuseppe gridato dalla folla. Davanti il simulacro del Santo sfila il sacerdote con i chierichetti uno dei quali porta sulle spalle un megafono collegato al microfono del  parroco che durante la processione recita il Santo Rosario insieme alla folla. Dietro la vara l’amministrazione comunale al completo,  la banda musicale quindi la folla festante e orante. Il corteo religioso percorre una parte della via Madrice e ad ogni incrocio si ferma un poco, poi si immette in via Maestro Santo e poi arriva in via La Masa arrivando in piazza Fuori Porta ove c’era anticamente una porta che segnava il punto ‘ingresso del paese. Ora c’è semplicemente un arco, arco abbattuto dagli americani durante la seconda guerra mondiale per consentire il passaggio dei loro mezzi pesanti, e recentemente ricostruito. La processione superato l’arco di fuori porta percorre un breve tratto della strada provinciale Trabia-Ventimiglia arrivando in un punto chiamato crucidda, fa ritorno e superato di nuovo l’arco si ferma un poco perché li accanto c’è la Chiesa di Sant’Oliva, fatta costruire dalla famiglia Lanza e prima sede religiosa della comunità di Trabia. Quando il corteo arriva davanti la chiesa situata lungo il percorso si ferma un poco il tempo di recitare qualche preghiera mentre gli stendardi e le aste vengono abbassate un poco in senso di rispetto come se facessero un inchino. La processione procede lentamente tra preghiere, rosario e marce musicali. Se c’è un attimo di silenzio il superiore della confraternita grida: “ma chi semu tutti surdi e muti”,” addumannamuci grazia a San Giuseppe”. La folla all’unisono risponde: viva San Giuseppe. Dopo aver percorso gran parte del corso La Masa e una parte della via Mons. Divittorio il corteo religioso arriva sul piazzale della Chiesa dove il sacerdote dopo aver elogiato la figura di San Giuseppe uomo pio giusto e protettore dei lavoratori impartisce la solenne benedizione. Subito dopo un breve sparo di mortaretti sancisce la fine della processione, il simulacro sta per entrare in chiesa tra la manifestazione vivace, rumorosa, gioiosa ed esaltante. La banda musicale suona l’ultima marcia, i confrati gridano addumannamuci razzia a San Giuseppe la folla ripete pure ad alta voce e un’altra parte della folla batte le mani per la gioia, qualche guancia viene irrorata per la commozione qualche genitore mette sulle spalle il proprio piccino per fargli dare con lo sguardo l’ultimo saluto al Santo. Subito dopo la gente fa rientro nella propria abitazione, i vari confrati in fila ordinata rientrano nella loro sede, si liberano degli abitini e di ciò che resta delle candele accese durante la processione. I confrati di san Giuseppe in chiesa completano la svestizione  della vara. La statua viene ricollocata nella sua nicchia, le luci e i lunghi ceri vengono spenti, i fiori riutilizzati per l’addobbo dell’altare le batterie utilizzate per la luce riconsegnate ai legittimi proprietari, le aste gli stendardi i bastoni e la vara denudate da ogni simbolo ornamentali depositati e custoditi nella sede della confraternita, dove i confrati privatesi degli abitini e sistemata con cura ogni cosa utilizzata per la funzione religiosa conclusa  chiudono la sede della confraternita ritornando a casa sereni pacifici e soddisfatti perché conclusa nel miglior modo possibile la festività del protettore dei lavoratori San Giuseppe.

foto dal web
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