Sulla fondazione di Trabia nel giorno del suo 388° anniversario. ( 19 gennaio 1635-19 gennaio 2023).

Tra il 1590 e il 1650 si assiste in Sicilia ad “uno dei fenomeni più importanti di trasformazione del territorio e della società isolana in età moderna. Si trattò di un vero e proprio processo di colonizzazione interna, che portò alla nascita di circa 120 nuove città feudali, concentrate soprattutto nella zona occidentale (Val di Mazara) e meridionale (Val di Noto) dell’isola. Tra queste città di nuova fondazione c’è anche Trabia, di cui in particolare ci occuperemo.

Ma per meglio comprendere questo significativo fenomeno, che interessò la Sicilia nei secoli XVI e XVII, occorre esaminare brevemente i fattori politici, economici e demografici, che ne determinarono la genesi. Proprio “tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, la Sicilia era uno dei territori più fortemente urbanizzati dell’Europa occidentale, secondo solo ai Paesi Bassi e alle Province Unite” . E’ stato opportunamente sottolineato dagli studiosi come nel corso dell’età moderna il numero delle città siciliane crebbe in maniera vertiginosa: dalle complessive 100 città individuate e censite durante il parlamento siracusano del 1398 , delle quali 40 certamente demaniali, si passò, prima, alle 195 del 1590 (di cui 42 demaniali e ben 153 feudali), poi alle 326 del 1750 (di cui 44 demaniali e 258 feudali).

Quindi, come è già stato detto, tra il 1590 e il 1650 in Sicilia sorsero più di 120 nuove città, ma, mentre il numero delle città demaniali restò sostanzialmente invariato, quello delle città sottoposte al controllo baronale crebbe esponenzialmente, con un picco tra il 1590 e il 1650. Inutile dire che le cause di un fenomeno di tale portata furono molteplici: innanzitutto la crescita demografica registrata in Sicilia nel corso del Cinquecento, che richiedeva un aumento della produzione agricola interna e la conseguente messa a coltura di superfici agrarie sino ad allora incolte. Inoltre, la nascita di nuovi centri rurali, specie nei territori più interni, avrebbe dovuto favorire, in una prospettiva di lungo periodo, l’esportazione di grano e aumentare il volume di reddito, derivante dai censi e dalle gabelle. Ma soprattutto, dietro il fenomeno della colonizzazione feudale, si celava l’ambizione dei nuovi ceti elevati siciliani, specie quell’aristocrazia degli uffici che nel Cinquecento aveva fatto del servizio alla Corona un’importante trampolino di lancio verso i ranghi della feudalità parlamentare, Infatti il possesso di un feudo popolato garantiva l’ingresso nel braccio militare del parlamento e l’attribuzione di un titolo feudale. Pertanto, per questi ceti, era molto importante ottenere dal Sovrano prima una licentia populandi e successivamente, acquistare la giurisdizione penale e civile sui nuovi vassalli cioè il cosiddetto merum et mixtum imperium. Era proprio l’esercizio di questa giurisdizione – che non si limitava esclusivamente alle funzioni giudiziarie, ma comprendeva anche quelle amministrative e fiscali – che nella Sicilia moderna distingueva il feudatario da un semplice proprietario terriero, poiché gli consentiva un dominio signorile pieno su un territorio e i suoi abitanti.

Sino al XVI secolo le licentiae populandi e il merum et mixtum imperium erano stati privilegi concessi, molto raramente, dal sovrano o dai Viceré a sudditi fedeli e meritevoli di mercedes. Ma a partire del 1610, invece, per far fronte alle spese delle Corona, Filippo III li rese vendibili e questo generò un vero e proprio “mercato”. Nel corso del ‘600 la Spagna imperiale fu impegnata militarmente su più fronti e tutti gli Stati furono chiamati a contribuire con uomini e denaro. Per la Sicilia, che si trovava lontana dai principali teatri di guerra, la richiesta di donativi si fece frequente e sempre più consistente. Allo scoppio della Guerra dei Trent’anni all’isola venne richiesto l’invio di 6000 uomini e un socorro di un milione di scudi. Si trattava, per l’epoca, di una cifra enorme che si riuscì a inviare in più rate facendo, ovviamente, ricorso ad un inasprimento della pressione fiscale. Così, per fare cassa, si procedette alla vendita massiccia di rendite, titoli nobiliari, privilegi e uffici. Inoltre, furono messe in vendita o alienate anche talune terre demaniali, con la concessione di licentiae populandi e vendita del merum et mixtum imperium.

Lungo le principali vie di comunicazione e, in particolare, vicino ai caricatori di Termini, Licata, Siculiana e Castellamare, sorsero, tra le altre, le città nuove di Altavilla Milicia (1621), Baucina (1624), Rocca Palumba (1628), Aliminusa (1625) e Trabia (1635). Tutte queste nuove fondazioni, con il conseguente maggiore controllo feudale del territorio, determinarono inevitabilmente delle pesanti ripercussioni nei rapporti tra feudo e demanio. In varie occasioni le città demaniali si espressero contro la nascita di città feudali sul loro territorio e tentarono, talvolta con successo, di bloccare o ritardare la concessione delle autorizzazioni, imbrigliando il procedimento con lungaggini burocratiche e accorate petizioni rivolte direttamente al Sovrano. Ma, il più delle volte, dovettero scontrarsi con la rete di potere di molti feudatari che comprendeva sia la corte vicereale a Palermo che importanti collegamenti anche a Madrid. Proprio questo accadde per la fondazione di Trabia, che vide la città di Termini riuscire a bloccare per oltre trent’anni la richiesta presentata da Ottavio Lanza, conte di Mussomeli, per la concessione di una licentia populandi. In realtà, com’è noto, la durissima disputa con Termini si era originata già nel 1444, quando una parte del territorio di Trabia era stato concesso, dai Giurati di Termini, in enfiteusi a Leonardo di Bartolomeo, Protonotaro del Regno, per la coltivazione della canna da zucchero. Alla morte del di Bartolomeo, il suo unico figlio ed erede, Narduccio, aveva concessa in moglie la figlia Aloisa a Blasco Lanza, uomo di legge di indiscusso valore, che alla fine del secolo XV ricopriva la carica di Giudice della Regia Gran Corte. Questi, nel 1509, aveva già ottenuto l’erezione in feudo nobile della Terra di Trabia , entrando così a far parte della classe dei baroni. A Blasco Lanza successe il figlio Cesare, che fu investito del feudo e Castello di Trabia il 28 marzo 1536, il quale continuò lo scontro con la vicina città demaniale. Scontro che culminò intorno al 1539-1540, nel tentato omicidio di Simone Lo Pisano, uno dei giurati di Termini e, con molta probabilità, un acceso sostenitore dei diritti della sua città contro i possessori della Trabia.

Sarà il successore di Cesare, Ottavio I Lanza Centelles ad ottenere da Filippo III la concessione del titolo di Principe del feudo e castello di Trabia per sé, i suoi eredi e successori con ordine di primogenitura. E questi, nel 1602, avviò le procedure per l’ottenimento della licentia populandi. C’è da sottolineare come egli fosse stato investito del titolo di principe di Trabia, prima ancora che il nuovo centro fosse fondato. Immediata fu la reazione dei Giurati di Termini, che si opposero affinché il titolo di Principe fosse revocato e inviarono propri ambasciatori in Spagna. Occorre comprendere che, oltre alla concorrenza per il controllo del territorio, la città demaniale temeva soprattutto una regressione demografica e la conseguente contrazione delle entrate fiscali, poiché molto spesso i signori feudali attiravano nel nuovo centro comunità intere con la prospettiva di esenzioni fiscali, della cancellazione dei debiti, di case e arnesi per lavorare la terra. Pertanto, una nuova fondazione poteva minare alla base l’economia del territorio e mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa della città.

Nel caso particolare di Trabia, “emergono motivazioni ben precise e vitali: Termini, posta alla fine di un imbuto ideale che dal mare si addentra nell’interno madonita”, punto di sbocco e di commercializzazione dei prodotti cerealicoli, del sale, dei formaggi e dei prodotti dell’interno,“non può tollerare che a pochi chilometri da essa si sviluppi un abitato che può entrare in concorrenza principalmente sul mare. Inoltre questo nuovo centro produttivo finiva con l’essere un elemento di disturbo della grossa città demaniale, poiché non faceva altro che impoverirla sia dal punto di vista della manodopera sia da quello fiscale…” Tra gli eventi, talora cruenti, che segneranno la lunga controversia con la città di Termini, c’è da segnalare una notizia riportata dal Villabianca, secondo la quale, nel 1606, i cittadini di Termini misero a ferro e fuoco l’insediamento di Trabia affinché fosse riassegnato “alla giurisdizione del loro civico Magistrato”. Anche Vito Amico riporta notizia di questo episodio, quando, ricostruendo la storia del feudo, scrive: “Apparteneva al magistrato di Termini, poiché nel 1606 colla forza e colle armi vendicaronsi quel paese i Terminesi “. C’è da precisare che questa spedizione contro Trabia sarebbe avvenuta durante il principato di Lorenzo I Lanza, figlio di Ottavio I, che morirà molto giovane nel 1612, costringendo il vecchio padre a riprendere il possesso del feudo: Ma, morto anche lui, nel 1617, tutti i possedimenti ed i titoli dei Lanza passeranno a Ottavio II Lanza e Barrese, figlio primogenito di Lorenzo. Ottavio II, nato nel 1605, alla morte del nonno aveva appena sette anni, per cui fu posto sotto la patria potestà della madre, la marchesa Elisabetta Barresi. Investito il 2 marzo 1618 , sarà reinvestito il 27 gennaio 1622 per il passaggio della corona da Filippo III a Filippo IV.

Nel 1626, all’età di vent’anni, sposa l’unica erede della linea Lucchese, figlia di Don Giacomo, duca di Camastra, conte di Sommatino e barone di Dammisa, “la bella Donna Giovanna Lucchese Spinola e, due anni dopo questo matrimonio, si adornò dei titoli ereditati dalla moglie”, titoli che, come vedremo, compariranno sulla lapide marmorea collocata sul lato sinistro dell’Arco di ingresso di Trabia, da lui fatto edificare. Ottavio II Lanza fu un principe illustre, colto, arguto ed anche un abile politico. Come fu scritto, un uomo “in pace ed in guerra egregio”. Più volte deputato del Regno (nel 1630 e nel 1642), ricoprì il prestigioso incarico di Vicario Generale a Sciacca, dove fu inviato nel 1647 per sedare la rivolta che vi era scoppiata a seguito dei moti rivoluzionari di Palermo. Sotto la guida di un artigiano, Giuseppe D’Alesi, il 15 agosto 1647, i rivoltosi si erano impadroniti del Palazzo reale e della città, costringendo alla fuga il Viceré. Si dovrà proprio all’abile intervento di Ottavio Lanza la fine della sommossa, che si concluderà con la decapitazione del D’Alesi e di alcuni seguaci. Il sovrano Filippo IV apprezzò molto l’opera svolta dal principe in favore della Corona, come testimoniano due lettere inviategli da Madrid, rispettivamente del 23 giugno 1647 e del 5 febbraio 1648 , nelle quali lo ringrazia personalmente e lo elogia per la sua fedeltà. Ma è soprattutto a lui che si deve la conclusione, almeno dal punto di vista legale, della secolare controversia con la città di Termini. Quest’ultima, nel 1631, provò ad ostacolare ancora una volta il popolamento del territorio di Trabia, ma il 19 gennaio 1635 Ottavio II ottiene finalmente la licentia populandi e il mero e misto imperio.

Scrive Giacomo Dentici:

“L’aver ottenuto, quindi, il diritto di giustizia sui suoi abitanti costituisce per Ottavio Lanza, oltre che una conquista di rilevante portata economica, anche una conquista politica voluta e compresa sia in tutta la sua importanza intrinseca che nella proiezione e sviluppo di una politica improntata sul potere e sul prestigio sociale che ne sarebbe derivato”.

Nella “concessione di populatione della terra di Trabia…” si legge:

“Don Ottavio Lanza prencipe della Trabbia ha litigato molto tempo con la città di Termine, che pretende non doversi concedere licenza di habitare, ne mero e misto imperio, ne altre expresse nella lettera della maestà del re Filippo terzo padre di V. M. , che Dio tiene in gloria, et hor ha presentato il memoriale et incartamento che va con questa, offrendo scudi 20. 000, cioè 10. 000 contanti in moneta del regno da pagarsi qui o nella reale corte di V. M. , et altri 10. 000 in tremila cantara di biscotti per servigio delle galere, con condizione che si imponghi perpetuo sillentio alla pretenzione della città di Termine o se li conceda il mero e misto imperio sopra tutte le terre che al presente esso principe possiede, con la licentia di habitare…”

La vantaggiosa ed esorbitante offerta di 20. 000 scudi fatta dal principe Ottavio II, contro i 3. 000 scudi offerti dai termitani, contribuì non poco ad abbattere le remore del sovrano, se pur mai ve ne furono. Del resto, occorre ricordare, che la “politica di egemonia europea intrapresa dalla Spagna…, imponeva l’affannosa e drammatica ricerca di risorse finanziarie. La Sicilia veniva di conseguenza a recitare il ruolo di fornitrice di denaro per finanziare le guerre intraprese ora sul continente ora nel Mediterraneo”. Ottenuta, dunque, la licentia populandi, in questa, probabilmente per rassicurare la città di Termini, viene espressamente fatto divieto ai termitani di popolare la terra di Trabia, sotto la pena del pagamento di 200 onze se nobili, 100 onze se cittadini e di tra anni di galera se ignobili. Pene simili venivano pure comminate agli abitanti di Trabia nel caso alloggiassero termitani. Come solitamente accadeva, “una volta ottenute le autorizzazioni, il feudatario provvedeva a sue spese a costruire per primo i servizi essenziali per la nuova città: vie di comunicazione, collegamenti, sistema di approvvigionamento idrico per la campagna e di acqua potabile per il centro abitato; dopo si procedeva all’edificazione del nucleo urbano: il palazzo baronale, le case che avrebbe affittato ai nuovi abitanti, la chiesa, i magazzini per conservare le derrate alimentari, il carcere”. Nel caso di Trabia assistiamo però ad una procedura insolita: infatti, da quanto riportato da più di un autore, già nel 1633, cioè almeno un anno prima che venisse concessa la licentia populandi, il principe Ottavio II “diede principio a fabbricare la Terra di Trabia”.E troviamo inoppugnabile conferma di questa singolarità in una delle due lapidi marmoree che furono collocate ai lati della Porta di accesso al paese.

Il testo latino della lapide è il seguente:

D. O. M.

Faelicibus Semper Auspicijs Philippi Hisp. IV Siciliae vero Regis III

Summo bonorum omnium ac praecipue viatorum plausu

Trabiae Oppidum ex agro reddidit Octavius Lanza Barresi II Trabiae Princeps

Dux Camastrae Comes Montis Mellis et Summatini

Dominus terrarum Castaniae et Bonpinserij

Anno a Pariente Virgine MDCXXXIII.

Mentre la traduzione italiana, come riportata nell’opera del Sinesio sui Lanza, recita:

A Dio Ottimo Massimo

Sotto i sempre felici auspici di Filippo IV di Spagna e III Re di Sicilia

Con sommo plauso di tutti i nobili e soprattutto dei viandanti,

Ottavio Lanza Barresi II, Principe di Trabia, Duca di Camastra,

Conte di Mussomeli e Sommatino,

Signore delle Terre di Castania e Buonpensiero

Nell’anno della partoriente Vergine, 1633, fece divenire Trabia

Da campo paese.

Questo documento epigrafico è della massima importanza storica, perché ci attesta che già nel 1633 era stata realizzata la imponente cinta muraria e la stessa Porta monumentale, ove furono affiancate le due lapidi commemorative. A dimostrazione della sicurezza riposta da Ottavio II sull’accoglimento della sua richiesta di licentia populandi da parte del sovrano. Ma è ancora una volta lo scritto di Padre Salvatore Lanza a fornirci precisi riscontri al riguardo. “E nel tempo medesimo i signori di Trabia, poggiando sulle concessioni sovrane il proprio diritto, insistevano perché fossero attuati i loro desideri. Infatti nel 1633 D. Ottavio Lanza II, Principe di Trabia, volendo migliorare la condizione dei fabbricati del nuovo paese, ne allargò i limiti, e da semplice feudo elevandolo a paese, decorò l’ingresso con quel medesimo arco, che tuttavia si osserva…”. Sappiamo, poi, di altrettanto certo, che il principe, soltanto pochi giorni dopo l’entrata in vigore della licentia populandi, cioè il 4 febbraio 1635, “stipula due contratti di costruzione, rispettivamente uno con i “magistri fabricatores” Francesco e Pietro Lo Re e Vincenzo Messina, (38) mentre, l’altro, sempre nella stessa data, con Francesco e Pietro Piamunti “. Dai due contratti si evince che egli aveva progettato di realizzare inizialmente 33 case ad un piano o, in alternativa, 66 case “terranee”. Nell’aprile dell’anno successivo, all’inizio della costruzione delle abitazioni, il Capitano della terra di Trabia, stipula un ulteriore contratto con Filippo Tumminello e Lorenzo Lo Muto, entrambi di Termini, che, con altri otto uomini, si obbligano“a cavare e levare totam illam quantitatem terre quod erit necesse…, incominciando di la cantonera dell’isola delli casi che fabricao maestro Martino di detta terra della Trabia eseguendo in chiano con la sua pendenza sino alla cantonera di dove si doverà fare la madre Chiesa…”. Si procede, quindi, ad una sistemazione della strada (l’attuale Corso La Masa), anche in previsione della edificazione della Chiesa Madre, cioè della Chiesa di S. Oliva, a ridosso delle mura e dell’arco della Porta Palermo. Nell’ottobre del 1635 la costruzione delle prime case date in appalto dal principe era in uno stadio avanzato, come si rileva da un conteggio tra il committente e uno dei “magistri fabricatores”. Tre “isole” sono quasi ultimate e viene precisato che le case sono tutte “terranee”, cioè monocellulari, e quindi meno costose. Un anno più tardi, nel luglio 1636, le prime case vengono concesse in enfiteusi, per un censo annuo di 2 onze per ciascuna casa. Dai contratti di affitto, stipulati tutti presso il notaio Nicolao de Leta, apprendiamo i nomi dei primi abitanti di Trabia:

– Giovanni Antonio Minolfo

– Maestro Pietro La Mantia

– Rocco Cavallaro

– Francesco Sirpotta

– Agostino li Brigundi

– Francesco Xeusa

– Francesco di Luca.

Una preziosa e straordinaria testimonianza dell’assetto urbanistico assunto da Trabia, a pochissimi anni dalla sua edificazione, ci proviene da una incisione del 1640, contenuta nell’”Atlante” realizzato, negli anni ’30 del Seicento, da Carlo Maria Ventimiglia e Francesco Negro, su incarico di Filippo IV e del Viceré Afan de Ribera. In questo disegno si possono distinguere abbastanza chiaramente le varie “isole” di case, tutte concentrate ed allineate, i mulini, il Castello da cui si diparte il lungo bastione nel quale si apre l’arco d’ingresso e le costruzioni legate all’attività della Tonnara. Se dobbiamo prestare fede all’incisione, parrebbe che il nucleo abitato sorga a partire dall’attuale via Mulini, lasciando libero un ampio spiazzo in corrispondenza dell’area della Favara, nella quale scaturivano alcune delle sorgenti destinate a fornire l’acqua al nuovo paese, sia per l’uso potabile che irriguo, ed anche per alimentare i vari mulini. Proprio per salvaguardare tali sorgenti, nella parte conclusiva del capitolato d’appalto, il principe inserisce “la proibizione di intaccare la pietra della Rocca dove sgorgano le sorgenti dell’acqua; è questa una fonte vitale da proteggere, che rappresentava il più importante punto di riferimento per il sorgere del paese e per la ricchezza del territorio”. A più di dieci anni dalla fondazione del paese, da un documento del 1648 , ci giunge notizia che il principe chiede una franchigia  di cinque anni per i nuovi abitanti, e nella richiesta fa riferimento, oltre ai suoi meriti ed alla fedeltà mostrati durante la rivolta del 1647, alla importanza assunta dalla nuova fondazione. Nel territorio di Trabia, dove trovano ospitalità molti “forastieri”, viene detto che non vi sono più “ladri e banditi”. “Quel territorio di passaggio è, quindi, sicuro: il Capitano con dieci compagni tutela l’ordine, il castello è dotato di una certa quantità di artiglieria. E’ Trabia, dunque, una “piazza Fortissima”, e, affinché resti tale, occorrono nuovi abitanti per difenderla”. Ed è proprio il tema della sicurezza del paese e del territorio di Trabia che costituisce il messaggio più importante contenuto nel testo della lapide marmorea collocata, come si è già detto, un anno prima della fondazione, accanto all’Arco d’ingresso del paese. Come segnalava Giacomo Dentici nel suo saggio, l’allusione diretta al ruolo difensivo che il nuovo centro assumerà, piò riguardare anche la funzione strategica che, soprattutto i paesi costieri, sono chiamati a svolgere contro le temute incursioni dei Turchi e di eventuali altri “inimici di Sua Maestà”.

Il testo latino originale della lapide è il seguente:

“Impavidus subea hos hospes amice penates tuta huc te sedes ospitumque vocat

Insidiae procul hinc fugiunt fraudesque dolique alma fides pietas religioque sedent

Presidet hic ager vigili leo lumine signat quem duce de Bavaro Lancea ducta domus

Sontibus immitis mitisque insontibus idem his favet ast illos ore premente fugat”.

Anche questa traduzione si trova nell’opera del Sinesio più volte richiamata.

“Entra senza paura, amico visitatore, in questo territorio;

qui un luogo di sicura ospitalità ti accoglie;

lontano da qui fuggono le insidie, le frodi e gli inganni;

Sacra fede, pietà e religione vi risiedono.

Questo territorio è di presidio, lo indica un leone dall’occhio vigile,

simbolo del casato dei duchi Lanza di Baviera,

che allo stesso modo è crudele coi rei e mite con gli innocenti,

essendo ben disposto verso questi, mettendo in fuga a morsi quelli”.

Come si può vedere, eravamo partiti, nella premessa a questo scritto, proprio dalla cronaca della ricollocazione della lapide in questione. E concludiamo questo nostro breve excursus citando il testo di questa lastra marmorea fortunatamente recuperata. Si potrà apprezzare così, con maggiore consapevolezza, l’importanza di queste testimonianze storiche, tra le poche, purtroppo, che Trabia conserva. E si potrà, forse, comprendere meglio quanto avevamo detto all’inizio, sul significato anche “simbolico” che avrebbe potuto rappresentare il riposizionamento della lapide restaurata, con un più vasto e partecipato coinvolgimento di tutta la nostra comunità. Comunque sia, nel licenziare questo scritto, formuliamo per Trabia, in questi tempi di paura e di incertezza, i nostri voti augurali per il suo 388° anniversario della fondazione.

“QUOD BONUM FAUSTUM FELIX FORTUNATUM SALUTAREQUE SIT”

Roberto Incardona

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